I numeri nel Rapporto sulla salute mentale 2015 confermano l’urgenza di aprire una discussione pubblica importante: questi dati, infatti, sono allarmanti per la disomogeneità regionale, per l’esiguità delle risorse, per la crescita di una domanda che non trova le risposte oggi più che mai necessarie e possibili.
Perché la sofferenza che attraversa i luoghi della psichiatria non può essere letta attraverso la sola prospettiva medica o sanitaria, come se i disturbi mentali non fossero strettamente connessi alla società, alla cultura, al reddito, al lavoro, al mondo in cui tutti siamo immersi.
Se la depressione diviene un’epidemia ciò non può essere ridotto tout court ad un problema cerebrale o ad un trauma infantile: ma necessariamente, come tutto ciò che ha a che fare con la mente, è in relazione al contesto, ovvero alla crisi economica, sociale e culturale che stiamo vivendo, con bambini, anziani, mamme, disoccupati, precari, partite iva, artigiani (e potremmo continuare ancora per molto) sempre più soli in una tristezza che senza una collettività diviene disperazione individuale e assoluta, arginabile ‘solo’ con milioni di confezioni di antidepressivi per cercare di anestetizzarci al problema più che comprenderlo.
Quando si parla di politiche ‘territoriali’ in salute mentale, ci si riferisce proprio alla costruzione di servizi in grado di affrontare e andare incontro ai variegati problemi mentali, ricordando che dietro ogni follia, c’è una persona in carne e ossa, una famiglia, una rete di persone coinvolte che va sostenuta, non barricandosi in studi o ambulatori che non verranno mai raggiunti e se l’attività domiciliare si riduce all’8% delle prestazioni effettuate questo è un problema metodologico e strategico.
Perché senza una rete di servizi e contesti in grado di prevenire il disagio, l’assistenza è inevitabilmente legata alla logica dell’emergenza e ad una spirale regressiva totalmente inefficace e perlopiù tremendamente cara (‘soli’ 73 euro a testa): che porta più di 16.000 persone in un anno ad entrare ed uscire dai reparti psichiatrici per condizioni gravi ed urgenti senza una reale presa in carico e una progettualità.
E ciò diviene evidente se si da uno sguardo alle prestazioni effettuate dai servizi pubblici, in cui la riabilitazione psichiatrica ha un ruolo spesso marginale: una riabilitazione esigua e iper-focalizzata sui problemi della persona visti come deficit individuali e non problemi di natura relazionale e sociale.
Se manca un orizzonte di vita possibile la salute mentale ne risente, a volte in modo drammatico: in assenza di possibilità sociali, formative e lavorative le persone più fragili soffrono e ciò è correlato ad un’aumento di tutte le diverse forme di psicopatologia.
L’esclusione sociale mette ansia, manda in depressione, aumenta la dipendenza da sostanze, crea un dolore che rende la follia un muro invalicabile che non può essere superato. Pensate a come si sta quando non si trova un lavoro o non si ha un gruppo di amici. Pensate l’impatto che ciò può avere in persone che dopo anni di lavoro su di sé vogliono riprendere in mano la propria vita. L’esclusione sociale ha un costo e una fenomenologia che i dati del rapporto ignora. La sola assistenza sanitaria può fare ben poco senza la ricostruzione di un senso collettivo, senza una città che diviene comunità che si prende cura di chi volente o nolente deve andare ad un passo più lento rispetto ad una normalità, questa sì, sempre più folle.
E non c’entra essere più ‘buoni’: riorganizzare l’assistenza psichiatrica è una questione scientifica, sociologica e politica. Perché i principi che guidano una buona assistenza sono assimilabili ai principi di una buona democrazia.
Foto di loriZ (CC BY-NC 2.0)