I centri di salute mentale sono in una condizione di crisi permanente ormai da molti anni: mancanza di risorse e personale, scarsa presenza sul territorio, difficoltà enorme nell’intercettare e prevenire il disagio mentale. In mancanza di fondi e investimenti, i servizi sono sempre più impotenti di fronte ad una domanda di salute crescente e in questo stato di emergenza cronica, l’integrazione sociale, il sostegno psicologico domiciliare, gli spazi di socializzazione ed il reinserimento lavorativo vengono considerate un ‘di più’: qualcosa di molto bello, ma i problemi veri sono altri.
In molte regioni, la riforma vale solo sulla carta e le buone pratiche non sono sostenute da norme consolidate e schiacciate dalle difficoltà economiche del territorio in cui si inseriscono, rimangono orfane di una politica sanitaria distante e incapace di programmare. Il supporto ai familiari, i percorsi di formazione e reinserimento vengono portati avanti da singole persone o realtà, che fanno letteralmente i miracoli, ma sono spesso oppresse dalle esigenze quotidiane che tale prassi operativa richiede.
In questo modo, si diviene martiri in nome di un modello che non riesce a diffondersi e a reggersi, se non grazie ad un enorme sforzo individuale di chi lavora così, solo perché non potrebbe fare altrimenti, sopportando la propria precarietà e la fragilità stessa dell’intero sistema.
Come si è giunti a questa situazione?
Purtroppo si deve constatare che nella maggior parte del territorio nazionale, il disagio mentale viene ancora affrontato e letto da parte dei professionisti del settore in un’ottica esclusivamente bio-medica e riduzionista, ovvero, semplicemente come una malattia del singolo cervello. In questo modo, lo stato di salute del paziente viene ricondotto esclusivamente ad un dosaggio azzeccato della terapia o al tipo di farmaco utilizzato ed il ricovero in cliniche specializzate diviene l’unico luogo naturale dove farsi carico di queste persone.
Alla continua ricerca di una terapia appropriata per una malattia di cui non si conosce ancora la causa, viene sottostimata la dimensione sociale del problema e il ruolo fondamentale che le determinanti sociali (casa, socialità, formazione, lavoro) possono avere nel processo di cura dei disturbi mentali, andando spesso a modificare la ‘sintomatologia’ stessa del disagio.
Se la sofferenza mentale viene concepita come un problema esclusivamente organico, l’unica prevenzione possibile è farmacologica, l’emergenza può essere affrontata solo tramite ricoveri ospedalieri coatti (TSO), e la vita può svolgersi necessariamente solo in cliniche residenziali specializzate.
Questo approccio prettamente bio-medico si è già rivelato totalmente inadeguato nel risolvere i problemi oltre ad essere incredibilmente costoso, in quanto, se non si prevede un percorso di reinserimento sociale dopo il ricovero, le cliniche psichiatriche producono cronicità e disagio. Tuttavia, nel momento in cui si ha un approccio organicista, la cronicità viene imputata semplicemente ad un cervello mal-funzionante, non tenendo conto del contesto pratico di vita di queste persone e della sofferenza dovuta alla totale mancanza di prospettive. In altre parole, non si vede il problema e il forte ruolo iatrogeno del proprio modo di lavorare.
Partendo dal fatto che i disturbi mentali non hanno una eziologia definita, ovvero, detto in parole semplici, non hanno una causa ben definita e ‘isolata’ a livello biologico (il gene, la regione cerebrale, il meccanismo fisiologico colpevole, si veda l’articolo “Psicofarmaci: Perché li prendiamo?”) e sono problemi ‘complessi’ che derivano dalla relazione di diversi fattori (biologici, psicologici, sociali e relazionali) ne consegue che la prospettiva della psichiatria tradizionale è inadeguata e tremendamente distante dalle attuali conoscenze della neurobiologia contemporanea.
In una prospettiva più ampia e scientificamente validata, che vede la mente non ridotta a mero effetto cerebrale, ma co-determinata dalla fondamentale relazione della persona con il proprio contesto, diviene evidente che se un paziente non ha la possibilità di formarsi, socializzare, re-inserirsi nella società, la residenza psichiatrica e la cronicizzazione della propria sofferenza diviene l’unica possibilità pratica di vita.
E di fronte alla mancanza di prospettive, non c’è terapia farmacologica o psicologica che tenga in un sistema che produce e alimenta la malattia che vuole curare.
Spesso, di fronte alla mancanza di progetti che prevedono il reinserimento nella società di questi pazienti e l’incapacità dei servizi di svolgere un lavoro di assistenza sul territorio fondamentale per la prevenzione di queste gravi forme di psicopatologia, soprattutto nelle grandi metropoli, l’obiezione più comune è: “Mancano le risorse!”.
Perché mancano le risorse?
Facciamo due esempi significativi: a Foggia, su 32 milioni di budget del Dipartimento di Salute Mentale, 25 servono a pagare le rette
nelle cliniche residenziali, accogliendo circa 1.000 persone, mentre rimangono 7 milioni di euro per tutti gli altri pazienti, più di 10.000 persone.
Nel Lazio, le cliniche assorbono più del 50 % di tutto il budget destinato ai servizi di salute mentale (158 milioni di euro), per rimborsare la permanenza in 1.350 posti letto, pagati tra i 90 e i 210 euro al giorno per ogni paziente in base all’intensità del disagio che le cliniche devono affrontare.
Se le risorse vengono concentrate in questo modo nelle cliniche residenziali, poi vengono meno le risorse per le progettualità in grado di prevenire il disagio grave di tutti gli altri pazienti (la stragrande maggioranza), i quali, non adeguatamente seguiti dai Centri di Salute Mentale, avranno una maggiore probabilità di stare male e richiedere a loro volta un ricovero, in un circolo vizioso che produce e alimenta malattia e cronicità in nome di un’emergenza costante e di una spesa pubblica crescente.
Detto in un altro modo, in mancanza di una adeguata progettazione di interventi efficaci, emergenza e cronicità assorbono tutta la spesa in cliniche che divengono la partenza e la fine di ogni progetto terapeutico. Inoltre, più la sofferenza rimane confinata in istituti, più è difficile farla uscire da luoghi in-appropriati di cura. E questo accade, perché spesso mancano delle prassi normative ed economiche a livello regionale in grado di realizzare nella pratica i principi con i quali è stata scritta la legge 180.
Qual’è l’alternativa pratica a questo modello di salute mentale?
Vogliamo presentarvi un modello alternativo, centrato sul ‘budget di salute’: uno strumento operativo in grado di concretizzare un’adeguata integrazione socio-sanitaria a livello locale nel progettare interventi di cura e assistenza rivolti agli utenti psichiatrici (e non solo).
Il “budget di salute” è un investimento economico, sintesi delle risorse economiche, professionali e umane necessarie per innescare un processo volto a ridare ad una persona, attraverso un progetto terapeutico-riabilitativo individuale, un funzionamento sociale accettabile. Alla definizione del progetto partecipano il paziente stesso, la sua famiglia e la sua comunità.
Il progetto terapeutico individuale si basa su un approccio centrato sulla persona, sulle sue capacità e limiti, sui suoi bisogni e sulle sue potenzialità. È un’
Facciamo un esempio concreto:
“Luigi, quarantenne sordomuto dalla nascita, comunica abbracciando in modo vigoroso e innocente le persone che incontra. Fa parte della comunità per persone con disagio psichico “Alberto Varone”, nel casertano. Prima, nella struttura residenziale psichiatrica dove ha vissuto per anni, chiedeva attenzione sbattendo la testa al muro fino a che non usciva il sangue. Per questo lo riempivano di farmaci.
Quando lo incontro, Luigi ha concluso un percorso riabilitativo basato sul sistema del “budget di salute” con la cooperativa “Al di là dei sogni”, che gestisce la fattoria “Alberto Varone” confiscata alla camorra a Sessa Aurunca (Ce). Invece di pagare per lui una retta nella casa di cura psichiatrica, lo Stato gli ha garantito un’abitazione insieme ad altri pazienti, attività di “educazione alla socialità” e un progetto di reinserimento lavorativo mirato a valorizzare le sue capacità personali.
Figlio di contadini e abituato fin da piccolo a prendersi cura della terra, nei tre anni di percorso ha valorizzato questa competenza. “Riesce nella riproduzione di alcune piante, dove tutti gli altri falliscono”, sottolineano gli operatori. Oggi è socio lavoratore della cooperativa: al termine del progetto di “budget di salute”, Luigi vive in autonomia e ha smesso di prendere psicofarmaci. Con il suo lavoro, contribuisce economicamente alla comunità in cui vive, coltivando le terre che 20 anni fa furono confiscate ai clan” (La cura dell’inclusione, Altreconomia)
Con l’approccio bio-medico tradizionale, Luigi, sarebbe rimasto a tempo indeterminato a prendere farmaci in una clinica psichiatrica, in quanto, continuando a sbattere la testa contro i muri, difficilmente sarebbe ‘guarito’ e la sua ‘malattia’ avrebbe richiesto cure farmacologiche ad oltranza, per sedare quantomeno la sua sofferenza. Questo, ad un costo variabile tra i 90 e i 200 euro giornalieri per tutta la vita. Ovvero tra 2.700 e i 6.000 euro al mese circa per decenni.
Con l’approccio del budget di salute, il suo progetto, durato 3 anni, è costato 84 euro al giorno durante il primo anno, fino a scendere a 42 euro al terzo, promuovendo interventi centrati sull’autonomia abitativa, le capacità relazionali e la formazione professionale.
E adesso? Tramite il suo reinserimento lavorativo, questa persona ha un vero e proprio reddito dovuto al regolare lavoro che svolge presso la Cooperativa Sociale.
Abbiamo fatto questo esempio, proprio a dimostrazione del fatto che questo approccio può essere attuato in situazioni di psicopatologia grave.
Come vediamo, il “budget di salute”, riconverte i fondi per il disagio psichico da interventi esclusivamente sanitari (ricoveri e prescrizione di farmaci) a interventi che riguardano quattro aree fondamentali nel funzionamento di una persona: casa, lavoro, affetti
In Campania, il budget di salute è divenuto operativo per legge dal 2012 e viene utilizzato in diverse ASL anche in Piemonte, in Emilia-Romagna, in Friuli Venezia-Giulia e in Sicilia.
Questi progetti, finanziati in parte dal Comune e in parte dall’Azienda sanitaria locale, sono implementati da cooperative e associazioni in un modello di co-gestione tra pubblico e privato delle risorse statali che favorisce un’innovativo modello di welfare comunitario.
I progetti, decisi dall’equipe multidisciplinare curante, sono concordati con il paziente stesso, il quale diviene un soggetto attivo, responsabile del proprio percorso terapeutico, insieme alla stessa famiglia.
Il budget di Salute può essere lo strumento in grado di riconvertire a livello pratico le risorse dei Dipartimenti di Salute Mentale, da una psichiatria difensiva centrata sull’emergenza ad un approccio integrato in cui si produce benessere nel territorio. Tale riconversione richiede un lavoro in rete con il Comune, con gli enti del Terzo Settore e le associazioni di volontariato, basata su obiettivi riabilitativi dichiarati e precisi, che permettono di uscire dalla logica dell’investimento delle risorse nei posti letto esclusivamente sanitari.
In questo approccio, la clinica psichiatrica non diviene più indispensabile e rappresenta in caso solo una fase di passaggio di un percorso terapeutico più ampio e strutturato.
Ad esempio, in Friuli Venezia Giulia, una delle regione in cui si utilizza in modo efficace tale impostazione, su 4.900 utenti psichiatrici, solo 80 pazienti sono ricoverati in case di cura convenzionate ed il 60% delle risorse viene investito in pratiche di salute mentale territoriale.
E nel Lazio?
Se da una parte il recente decreto 188/2015 preoccupa molti professionisti del settore, dall’altra ci sono delle buone notizie. Tale norma, infatti, rende finalmente più trasparente l’invio dei pazienti nelle cliniche, oltre a fornire, rispetto al passato, un forte controllo da parte dei Dipartimenti di Salute Mentale sulle procedure di ricovero (si veda l’articolo “La salute mentale territoriale produce salute e costa meno”). Inoltre, in questi mesi sta facendo il suo iter una proposta di legge regionale (la n.88 del 16 ottobre 2013) concernente “Il Sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali” in cui si prevede la presa in carico integrata della persona ed il budget di salute, ed è già partita la sperimentazione di questo strumento nelle Asl di due distretti sanitari romani.
Tramite la riconversione delle risorse, che si può attuare con il budget di salute, le buone pratiche possono divenire veramente protagoniste nei progetti terapeutici-assistenziali dei pazienti e non rimanere pratiche a margine dei ‘veri’ problemi. Tramite questa impostazione, i CSM potrebbero scoprirsi ricchi di risorse economiche da reinvestire in una vera prevenzione del disagio e dei TSO, tramite l’assunzione di nuovo personale e l’implementazione di progetti terapeutici individuali in cui vengono valorizzate le innumerevoli realtà oneste del Terzo Settore che opera sul territorio.
Serve un rinnovato lavoro culturale, scientifico e logistico attorno a questa proposta organizzativa concreta da parte dei professionisti del settore e dei cittadini coinvolti che ormai da decenni con le loro pratiche ed esperienze, hanno dimostrato che un modo diverso e più efficace di affrontare la sofferenza psichica, è possibile.
Dati e info tratti da:
1) La cura dell’inclusione, Altreconomia
http://www.altreconomia.it/
2) www.news-
Foto di copertina Pictures of Money| Flickr |CCLicense
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