Racconto di Giuseppe Bisceglia, tratto da “Famiglie che accolgono. Oltre la Psichiatria“, Edizioni Gruppo Abele.
“Eh eh eh! Eh eh eh!” Il vecchio Osvaldo se la rideva di gusto, con il dito scorreva il rigo e leggeva borbottando tra i denti: “Cervello. Parte anteriore del’encefalo collocata nela cavità cranica e divisa in du emisferi… questo già cio sapevo… composti in superficie di sostanza grigia, corteccia cerebrale, e all’interno di… una sostanza bianca, centro ovale, eh eh eh.”
Aggiustò gli occhiali adagiandoli sulla punta del lungo naso e ricominciò a leggere schiarendo la gola con un colpo di tosse: “costituisce er centro delle attività psichiche, motorie, sensoriali e sensitive”, staccò il dito dalla pagina e con lo stesso si grattò la testa pensieroso, “certo, ovvio” disse. Ripercorse la pagina con l’unghia nera alla ricerca del segno perso. “Ero rimasto… qua, sì… farsi saltare, bruciarsi le cervella, uccidersi con un colpo di arma da fuoco alla tempia, li mortacci!… ho il cervello che mi si spacca, ho un forte mal di testa, eh eh eh… riferito ad animali macellati: un cervello di bue, fritto di cervello, cervella bollite con limone… questo nu me interessa, vediamo… intelletto, ragione, intelligenza: non possiede un briciolo di cervello, agire senza cervello, in modo scriteriato – alzò leggermente il tono della voce assumendo un’ aria seriosa – fare le cose con poco cervello, co leggerezza, avere er cervello ‘n fonno ai piedi, essere privi de discernimento, avere il cervello nelle nuvole, in processione, essere distratti… oh! Eccola quà! Tu questo problema qua ci tieni nella testa Bernà!” esclamò d’un tratto, voltandosi a guardare Bernardo, dormiente sulla sedia di legno con i polsi legati. “Ascolta, ascolta bene.” “Non avere il cervello a posto, dare segni di squilibrio, andare via di, uscire di cervello, impazzire, gli ha dato di volta er cervello, è ammattito! Hai capito, proprio questo ci tieni tu, come devo fare co te Bernà!” Passò la mano sudaticcia prima tra i capelli, poi sulla salopette blu striata da macchie nere di grasso e si rituffò nel volume in cerca di risposte: “tornare in cervello, riacquistare il senno! o vedi, o vedi! Ce deve pur esse na soluzione…”, poi voltandosi nuovamente in direzione di Bernardo: “Senti questo Bernà! E’ scritto proprio pe me e pe te: mettere il cervello a posto. Che qua però vo dì mette giudizio, mentre io intendo proprio che lo devo mette a posto, montalla e rimontalla sta macchina, insomma me devo lambiccà il cervello, come c’è sta scritto qua: lambiccarsi il cervello, sforzarsi di risolvere il problema, di comprendere o ricordare qualcosa, hai capito Bernà?”
Osvaldo sospirò chinando il capo e si levò dallo sgabello: “mo te faccio vedè io se to risolvo sto problema, to risolvo io to risolvo, viè qua!” Bernardo non poteva andare là perché era sedato e legato e venne Osvaldo di fianco alla sedia di legno, nel mezzo dell’officina silenziosa illuminata dalla luce bianca dei neon. Infilò i guanti, afferrò con forza il capo di Bernardo e lo fece girare molto lentamente: svitò la testa con la massima cura, tagliò e mise in sicurezza le arterie, l’esofago e la spina dorsale. A operazione completata adagiò il cranio sul tavolo da lavoro, richiuse e spostò il libro, direzionò la lampada a braccio in favor di luce e spaccata a metà, iniziò a contemplare la scatola aperta. “Che motore incredibile, si alimenta cor sangue, coi pensieri, le parole, le immagini, l’ emozioni, nun se spegne mai ed è pure silenziosissimo, quanno è in funzione nun se sente niente, de notte va come in standby e rielabora e sogna, che macchina meravigliosa!”, pensava Osvaldo, orgoglioso del lavoro che faceva da anni e anni.
In paese era conosciuto da tutti come il meccanico della testa: aveva revisionato più di mille teste piccole e grandi, migliorato le prestazioni della vista, ripulito i tubi del naso di fumatori incalliti, aveva sempre aggiustato i problemi che i suoi compaesani accusavano. Certo, qualcuno ripassava dall’officina di tanto in tanto ma Bernardo era il primo caso serio di follia che gli fosse mai capitato tra le mani. Il cervello non era mai stato il suo forte, si era cimentato per lo più in bagni caldi per ripulire la corteccia morta, rinvigorendo intellettualmente molti vecchietti: lucidava i pezzi, allentava i raccordi o li stringeva a seconda dell’esigenza, ma Bernardo era un caso a parte.
Quella notte ripetè abilmente i movimenti, recise il midollo allungato e sfilò il cervello.
Le aveva provate tutte: ricordò di quando aveva messo il telencefalo a bagno nella camomilla, con la speranza di risolvere il problema dell’insonnia e di calmargli l’animo. Bernardo non dormiva: passava la notte come un cane al freddo sul balcone a fumare in vestaglia, poi tornava in stanza e fumava ancora; nel pieno della notte sbatteva la porta della camera che tutti i vicini saltavano dal letto, restava dieci minuti in silenzio seduto sul bordo del materasso e si rialzava per andare a fumare battendo forte la porta. Il rimedio della camomilla aveva dato risultati poco soddisfacenti: Bernardo, tornato a casa dopo la cura, dormiva per la prima settimana, poi ricominciava allo stesso modo, peggiorando giorno dopo giorno.
Il meccanico ispezionò la superficie della corteccia dell’encefalo per vedere se si era rigenerata nuova materia, strizzando, sotto le folte sopracciglia grigie, i due piccoli occhi blu: Osvaldo era convinto che le fantasie erotiche e l’eccitamento continuo di Bernardo dipendessero dalla conformazione del suo cervello e aveva speso molto tempo nel tentativo di equilibrare la curvatura, limando la parte destra dell’encefalo vistosamente più grossa di quella sinistra. Neanche questo aveva del tutto distolto Bernardo dall’abitudine di masturbarsi in luoghi pubblici.
Ribaltò il cervello per dare un’occhiata al cervelletto, che si mostrava, come sempre, gonfio per lo stress e le angosce. Anche qui scorse i segni del suo intervento e aggrottò la fronte rammaricato per l’inutilità della sua intuizione: una moneta da 5 centesimi era in lata in una delle aperture della corteccia del cervelletto e sporgendo un po’ all’infuori si incastrava con la parete posteriore dell’encefalo. Quello era forse il problema più grave di Bernardo che, terrorizzato dal fatto che qualcuno gli rubasse i soldi, ogni mattina usciva di casa girando per le vie del paese in pantofole e vestaglia, una canottiera e una mutanda bianca sotto, se la prendeva con tutti quelli che incontrava: li insultava, minacciava, strattonava. Gli sputava. “Ridamme li cinque centesimi brutto jo de na mignotta, sei un ladro, latro!”
Questo (ne era ben convinto Osvaldo) doveva essere un problema legato all’alcool e al fatto che l’uomo si ubriacasse frequentemente, così da non poter controllare i nervi: “Bernà tu bevi troppo, che te devo dì, era meglio se na mano m’a davi pure tu, invece d’annattè a mbriacà sempre alla bottega de mastro Rolando. Come devo fa co te, dimme tu come devo fa…”
Da un po’ di tempo poi, Bernardo non riusciva più a parlare correttamente e sbiascicava parole che nessuno comprendeva. Osvaldo se ne ricordò e, posato il cervello vicino al cranio, si soffermò su quest’ultimo muovendo la mandibola e aprendo la bocca in modo tale da controllare la lingua, che spostata penzolò senza sostegno: il rinforzo che aveva applicato sul frenulo aveva ceduto e di sicuro non si capiva più un accidenti di tutto quello che Bernardo diceva. “Bernà sei tutto rotto tu, nun te vole più nessuno. A me ppe fa sto lavoro mica me pagheno, ormai nu me pagheno più, so io che voglio insiste, che me voglio lombricà er cervello mio pe aggiustà er tuo.”
Osvaldo richiuse la bocca e posò il cranio. La luce gialla della lampada da lavoro illuminava il corpo del meccanico che tolse i guanti, fece cadere gli occhiali legati al collo e iniziò a lambiccarsi il cervello.
Pensava e ripensava: fece ricorso alla memoria e cercò risposte in tutte le teste che aveva smontato, che aveva fatto ripartire più scattanti di prima.
Quando guardò l’orologio mancavano cinque minuti alle due della notte, così si alzò e raccolse la giacca: “Domani Bernà, domani, che mo me s’è fuso er mio de cervello”, si schiaffeggiò la testa, infilo il cappello, fece fare un giro alla sciarpa e si incamminò verso casa.
Donna Maria lo aspettava dormendo nel letto gigante che era fatto apposta per contenere le sue abbondanti forme che straripavano dalla parte del marito, fortunatamente esile e minuto. Osvaldo si spogliò facendo attenzione a non fare rumore, indossò il pigiama e si infilò nel letto. Sospirò stanco, incupito dai pensieri, quando si accorse che Maria era sveglia: “Osvà che te sei ammattito a ritornà a quest’ora? Me voi fa morì de crepacore?” “No, Marì, carmate! pomeriggio m’hanno portato n’artra vorta a Bernardo.” “Ah… e scuseme, nun ce lo sapevo e me so preoccupata” “Lo so, lo so, dormimo mo, che domani c’ho de lavorà”, disse il marito, poggiando la testa sul petto della moglie.
Osvaldo non chiuse mai gli occhi e due ore dopo, mentre Maria ancora dormiva, spostò i mobili del soggiorno, tirò fuori il divano letto e levò i quadri dalle pareti: scese in strada coperto dal cappello, arrivò all’officina e staccò dal muro tutti i calendari con le donne nude che aveva collezionato in quarant’anni di carriera, li infilò in uno scatolone e li portò a casa.
Maria lo aspettava all’ingresso: “Ma allora te sei ammettito pe davero?” “Lo ospitiamo qua Marì…”, disse Osvaldo avvinghiato allo scatolone. “Te sei ammattito pe davero Osvà”, non disse Maria giungendo le mani in segno di preghiera.
Così le pareti del soggiorno furono arredate con i calendari, il letto fu preparato con lenzuola pulite, un mobiletto basso venne sistemato a far da comodino, la credenza utilizzata come libreria e il tavolo come scrittoio, con davanti il balcone per uscire a fumare. La prima cosa che disse Bernardo quando si risvegliò quella mattina fu: “Aanndmo ff giro!” indicando la vecchia motocicletta di Osvaldo in un angolo dell’officina, e i due partirono per i tornanti sulla collina.
I primi due giorni furono un incubo e Maria chiese a Osvaldo di riportare indietro Bernardo. “Osvà me voleva buttà a lavatrice dar barcone! Metti che ammazza quarcheduno noi poi che facciamo, che diciamo? Questo c’ha ancora forza, na forza bruta. Ha sradicato a lavatrice, de punto en bianco. Nun se po fa’. Vuoi sapè che s’è inventato poco fa? Era sur barcone quanno esce Caterina dar palazzo de fronte co’ na cannottiera tutta scollacciata e lui è annato fori de testa! Ha levato er cazzo de’ mutanne e ha iniziato a masturbarse. Osvà non lo potemo tenè, pe favore Osvà.” Il meccanico non rispose e lasciò la moglie sola in cucina, raggiunse Bernardo che era in camera seduto sul letto e gli si mise accanto. Rimase a guardarlo tutto il pomeriggio, anche Maria si aggiunse a quel silenzio che i tre conservarono intatto per quattro lunghe ore. Bernardo si sentiva in soggezione e si alzò girando per la camera con gli occhi dei coniugi puntati addosso. Lui allora recitò la parte del serio e si mise a leggere un libro seduto al tavolo, fumava, girava pagina, guardava Osvaldo e Maria. Fumava, girava pagina, guardava Osvaldo e Maria. Così per ore fino a quando non arrivò all’ultima pagina del libro e la strappò. Scrisse con difficoltà qualcosa che appariva come “voglio stare solo” e lo diede a Osvaldo. I due sposi lasciarono Bernardo da solo e andarono a letto, dove stesi pancia all’aria si diedero la buonanotte rompendo il silenzio. “Buonanotte Osvà” “Notte Marì” Osvaldo si era appena girato sul anco quando Maria aggiunse: “Osvà…” “Marì dorme, vedrai che col tempo s’aggiusta tutto. Col tempo Marì. Dovemo solo aspettà.”
E col tempo, effettivamente, Bernardo uscì sempre meno a masturbarsi sul balcone e si abituò a non sbattere la porta finestra. Donna Maria gli insegnò a raccogliere le monetine da 5 centesimi giorno per giorno e quotidianamente a contarle e segnare il numero esatto sul blocchetto che gli aveva regalato: e lui contò ogni giorno. La notte dormiva sognando i seni delle ragazze sui poster, al bar prendeva il caffè corretto e a casa lo viziavano con i cioccolatini al rum, ma non bevve più come prima. A volte ritornava al freddo come un cane sul balcone, a volte Maria doveva sborsare 5 centesimi per farlo calmare, a volte non si calmava, cercava di sradicare la lavatrice e per fermarlo doveva intervenire Osvaldo. Una volta, poi, dopo anni, disse: “ooolio morì que casa”.
E ci morì in quella casa, dopo Osvaldo ma prima di donna Maria, che fino alla ne, nella casa del meccanico della testa, aveva conservato il soggiorno come stanza di Bernardo e non pensava più che Osvaldo si fosse ammattito e in cucina, attaccate sull’angolo in alto a destra del portellone del frigorifero, aveva appeso le foto di loro tre in vacanza, in costume da bagno, abbronzati e sorridenti, sotto un ombrellone rosso con i puntini bianchi.”
Giuseppe Bisceglia è un autore e regista indipendente. Classe 1985, nasce a Cosenza, vive e lavora a Torino. Nel 2012 è autore del testo per la pubblicità internazionale Diadora, Free to be me, che vince i Lion Craft di Cannes come miglior film italiano.Lavora negli anni con Teatro Stabile di Torino, Indyca, DUDE, Rai Cinema e collabora come docente con la Scuola Holden di Torino.Ha pubblicato racconti in raccolte collettive per Feltrinelli, Mondadori, Edizioni Gruppo Abele.Attualmente lavora al suo primo lungometraggio sul quartiere Aurora di Torino, prodotto da Epica Film con il contributo della Film Commission Piemonte. Sito internet: giuseppebisceglia.com
Famiglie che accolgono
Dal 1978 la riforma psichiatrica proclama per legge che i manicomi devono essere abbattuti e che è possibile assistere le persone con disturbi psichici con sistemi diversi dalla contenzione e dalla segregazione. La scommessa, da allora, è quella di trovare sistemi diversi di assistenza e di cura, improntati all’accoglienza e all’inclusione. Spicca, tra questi, l’inserimento in famiglie disponibili all’affidamento. In questa prospettiva si muove lo Iesa, (Inserimento eterofamiliare supportato di adulti sofferenti di disturbi psichici).
Di tutto questo parla il libro. Che riporta certo l’analisi e la storia di questa esperienza, ma che ad essa affianca la narrazione. Parte del volume infatti è composto da venti racconti sul tema dell’accoglienza eterofamiliare. I brani scelti, è importante segnalarlo, sono stati selezionati tra centotrenta scritti che hanno partecipato al concorso organizzato dal Servizio Iesa dell’Asl TO3 in collaborazione con la Scuola Holden di Torino: Accogliere biografie sospese.
Cos’è il servizio Iesa dell’Asl TO3?
Per rispondere a questa domanda citiamo un articolo di 180gradi:
È stato, inoltre, accertato che per i pazienti psichiatrici che hanno usufruito dello Iesa, i dosaggi dei farmaci e i ricoveri sono di gran lunga diminuiti. Le tipologie d’ineserimento, nell’ambito dello Iesa, sono due: una full time e l’altra part time. Per la tipologia full time, i pazienti convivono con una famiglia avendo per sé un posto letto e tutte le comodità di una casa in cui si vive coi propri fratelli e genitori. Per quanto riguarda la tipologia part time, coloro che decidono di aderire allo Iesa, devono semplicemente trascorrere un po di tempo della propria giornata con il paziente, svolgendo le più disparate attività. Resta comunque da intendersi che le famiglie e gli aderenti allo Iesa ricevono sostegno e ausilio dagli operatori e dai medici delle asl che possono intervenire per qualsiasi problema o vicissitudine si crei all’interno del rapporto paziente-famiglia. Inoltre, le famiglie sono specificamente scelte dai medici e dagli operatori per meglio comporre il quadro dei rapporti tra paziente e famiglia: in base alla tipologia del paziente si sceglie una famiglia più dinamica e attiva o meno.
Per quanto sia affascinante l’idea dell’inserimento familiare per tutti i pazienti psichiatrici che hanno bisogno di costruire la propria vita al di fuori dalle classiche strutture psichiatriche, è imprescindibile pensare che lo Iesa sia un servizio che funziona solo se viene inserito in una presa in carico territoriale del dipartimento di salute mentale all’interno di una rete terapeutica e di servizi coordinata e ben funzionante.”