I sintomi che si presentano durante il corso delle patologie dementigene possono essere riassumibili in sintomi neuropsicologici e in sintomi non cognitivi.
I vari cluster neuropsichiatrici nelle demenze racchiudono non solo alterazioni comportamentali come aggressività e ansia, disturbi dell’attività psicomotoria, irritabilità, disinibizione, apatia, alterazione di personalità e disturbi dell’umore ma anche disturbi psicotici come deliri e allucinazioni e alterazioni neurovegetative come ad esempio i disturbi del sonno, i disturbi del comportamento alimentare e i disturbi del comportamento sessuale.
Sono inoltre presenti sintomi prettamente cognitivi come l’amnesia, l’afasia, l’aprassia, l’agnosia, deficit attentivi, sintomi disesecutivi, disturbi del linguaggio e deficit delle social cognition.
La malattia colpisce ognuna di queste funzioni, tuttavia le perdite si manifestano in ogni individuo in modo peculiare e con livelli diversi di gravità. Tali perdite determinano comunque un cambiamento radicale della persona e la reazione a questo cambiamento è soggettiva.
Per tentare di afferrare il senso di disorientamento che possono sperimentare questi pazienti, la descrizione della “dimensione personale” in Ricoeur potrebbe essere delucidante. L’autore spiega come la dimensione personale sia fondata sulla narrazione di un chi che si articola in chi parla, chi agisce, chi si racconta e in chi è il soggetto morale (Ricoeur P., 2011). Appare evidente come al fine di svolgere queste funzioni sia necessario un linguaggio, un’abilità esecutiva, una memoria e una cognizione sociale. È quindi intuibile che, il verificarsi del decadere delle varie strutture e dei network che sottendono queste dimensioni durante il decorso di una patologia neurodegenerativa, comporti un’alterazione e uno smarrimento della personalità con un completo mutato senso dello “stare al mondo”.
Con il procedere della malattia il paziente sperimenta uno stato confusionale ed uno scarso controllo del suo comportamento. Ciò non significa però che il comportamento del paziente sia privo di significato, esso è sempre una reazione o una risposta ai suoi bisogni, desideri o emozioni. I disturbi comportamentali sono quelli che incidono maggiormente sulla qualità di vita sia dei pazienti sia dei familiari.
I famigliari spesso riescono ad accettare, almeno in parte, il decadimento cognitivo ma non riescono a elaborare la “perdita” della persona che non riconoscono più come il loro caro a causa dei disturbi del comportamento. Questi disturbi, infatti, rappresentano la più frequente causa di istituzionalizzazione per il paziente e di burn-out per il caregiver.
Il procedere della malattia prevede alcune fasi che hanno, però, solo un valore descrittivo e possono essere osservate contemporaneamente in uno stesso paziente.
Esiste una prima fase reattiva o psichiatrica caratterizzata da disturbi di memoria iniziali, con conseguenti reazioni di tipo ansioso o depressivo.
È poi presente una seconda fase, la fase neuropsicologica, che presenta un’evidente compromissione delle funzioni cognitive che divengono deficitarie con un diverso ordine temporale.
A seguire si verifica la fase neurologica con la compromissione delle funzioni vegetative, che vanno dall’incontinenza urinaria e fecale fino all’incapacità di deambulazione.
In ultimo si presenta la fase così detta internistica, in cui la mobilizzazione o l’allettamento causano una serie di conseguenze, dalle piaghe da decubito agli episodi di delirium.
È importante considerare però come ci suggerisce Trabucchi nel 2015 che:
“… vi è una presenza psichica significativa anche quando è nascosta dietro l’apparente incapacità comunicativa e intellettuale tipica delle fasi avanzate della malattia”. (Trabucchi M., 2015)
Per comprendere meglio il motivo per il quale il decadimento non avviene per tutti i pazienti nello stesso modo e nei medesimi tempi, è necessario rifarsi al modello attivo di riserva di Stern del 2002 (Stern Y., 2002).
L’autore per spiegare la resilienza del cervello e della mente al danno cerebrale distingue la riserva cerebrale dalla riserva cognitiva.
La riserva cerebrale (brain reserve) è la capacità strutturale del cervello di far fronte al danno neuropatologico grazie all’efficienza e alla flessibilità delle sue reti neurali come se fosse l’hardware. Le differenze individuali della capacità di riserva cerebrale indicano il modello passivo di riserva.
La riserva cognitiva (cognitive reserve), invece, è la capacità di funzionale del cervello e di ottimizzare le sue prestazioni mediante processi di compensazione come se fosse un software.
Esistono, quindi, fattori protettivi il decadimento, che agiscono a livello cerebrale e che possono essere rappresentati ad esempio dalla scolarizzazione, ma anche dall’attività fisica, dall’alimentazione, dallo stile di vita e soprattutto dall’atteggiamento emotivo.
È possibile ipotizzare, però, che non esista una rigida dicotomia tra questi due tipi di riserva, ma che essi si influenzino vicendevolmente così come sarà presentato in seguito. Le variabili che possono interagire sono molteplici e rendono spesso di difficile comprensione i vari quadri clinici.
Esiste, ad esempio, una condizione medica in cui il disturbo depressivo si manifesta con prevalenti disfunzioni cognitive, come perdita di memoria, attenzione e concentrazione, disorientamento spazio-temporale, confusione, apatia e ritiro sociale definita pseudodemenza. Questo disturbo è potenzialmente reversibile e non corrisponde a un quadro di degenerazione progressivo e irreversibile come la demenza.
Nel decorso clinico delle demenze, la depressione è più frequente negli stadi precoci e di solito peggiora il decorso della malattia. Per questo motivo è molto importante trattare tempestivamente la depressione nelle patologie dementigene, poiché spesso è possibile migliorare ampliamente sia l’aspetto funzionale dei pazienti, sia la loro qualità di vita insieme a quella dei caregiver.
Espressioni sintomatologiche dello spettro depressivo sono molto frequenti nella maggior parte delle demenze, spesso anche riferite dai familiari, ma è doveroso precisare che in queste malattie perdita di peso, agitazione, insonnia e altre alterazioni vegetative sono comuni, anche laddove non sia presente umore depresso.
La disforia intesa come umore instabile, è più frequente nella malattia di Alzheimer, mentre la labilità emotiva, l’“incontinenza emotiva”, il pianto senza contenuto di pensiero caratterizzano maggiormente altri quadri come le encefalopatie vascolari sottocorticali ad esempio.
È opportuno, perciò, interrogarsi sul rapporto esistente tra demenza e depressione nell’anziano, poiché lo stato depressivo non solo può configurare quella che si definisce pseudodemenza depressiva, com’è stato sopra indicato, ma che, tra i disturbi psichiatrici più frequenti tra i pazienti dementi, si manifesta proprio la depressione. La frequenza di depressione nelle principali forme dementigene varia dal 40% nella Demenza di Alzheimer al 60% nella Demenza Vascolare al 50% nel Parkinson e nella malattia di Huntington (World Alzheimer Report, 2016).
Le demenze, comunque, sono entità clinico-patologiche caratterizzate da un notevole polimorfismo neuropatologico e sintomatologico.
Ciascuna demenza, almeno nelle fasi lievi-moderate, è caratterizzata da un determinato profilo cognitivo-comportamentale, che dipende dal processo neuropatologico delle differenti strutture cerebrali.
È però anche vero che forme diverse di demenza possono avere alcuni sintomi in comune rendendo utile l’identificazione di un profilo descrittivo neuropsicologico (Blundo C., 2011).
Il MILD COGNITIVE IMPAIRMET (MCI) che interessa il 20% della popolazione anziana, ad esempio, è caratterizzato da un deficit di memoria o più raramente di altre funzioni cognitive senza un rilevante impatto funzionale. Costituisce un fattore di rischio per lo sviluppo della demenza (percentuale di conversione attorno al 12% annua e maggiore di 3 volte rispetto agli anziani normali) ma non ne rappresenta l’anticamera obbligatoria. Il passaggio da MCI a una condizione di piena normalità è possibile, a volte, attraverso il controllo delle malattie cardio- circolatorie come l’ipertensione. Nel MCI amnesico il soggetto riferisce disturbi mensili, confermati da un familiare, che non interferiscono, però, nella vita quotidiana e non si associano ad altre difficoltà cognitive.
La DEMENZA DI ALZHEIMER (AD) è invece caratterizzata prevalentemente da un disturbo mnesico che interferisce nella vita quotidiana. La perdita di memoria è progressiva e costituisce il sintomo di esordio più importante della AD nella sua forma di presentazione tipica. In un tempo variabile da alcuni mesi a uno-due anni si associa ad altri deficit cognitivi. Disturbi visuospaziali e costruttivi sono presenti a volte nelle fasi iniziali, associati a deficit del linguaggio. Vi sono casi che esordiscono con preminenti disturbi spaziali e visuopercettivi isolati. La AD può esordire, inoltre con un’afasia che spesso è di tipo fluente. In alcuni casi nel periodo di esordio si manifestano modificazioni comportamentali, soprattutto apatia.
La DEMENZA FRONTO-TEMPORALE (DFT) esordisce con disturbi del comportamento e delle funzioni esecutive, può essere associata anche a logopenia e successivamente ad afasia fino al mutismo. La memoria episodica nelle prime fasi di malattia è generalmente preservata poiché la degenerazione è prevalentemente localizzata nella corteccia prefrontale. Tuttavia un’amnesia progressiva può essere tra i primi sintomi nella forma temporale di questa demenza, la Demenza di Pick.
La DEMENZA CON CORPI DI LEWY (DLB) presenta nelle fasi iniziali della malattia una memoria episodica meno compromessa rispetto alla AD. Già nelle fasi iniziali sono, però, presenti marcati deficit visuospaziali e costruttivi. Caratteristici sono i deliri e le allucinazioni sempre presenti in fase iniziale.
Nella DEMENZA VASCOLARE il danno ischemico di specifiche strutture e gli stati d’ipoperfusione possono causare l’amnesia come evento focale circoscritto, oppure come sintomo d’esordio. Alcuni casi presentano una riduzione della fluenza verbale.
L’AFASIA PROGRESSIVA PRIMARIA, invece, nelle forme fluenti e non fluenti costituisce una disintegrazione isolata e progressiva del linguaggio (Blundo C., 2011).
Spesso, però, l’identificare un profilo descrittivo neuropsicologico al quale poter ricondurre l’insieme dei segni e sintomi riscontrabili nei vari pazienti, non appare esaustivo, come se non esistesse la “demenza” bensì ci fossero tante demenze quanti sono gli individui. Ancora una volta emerge chiaramente l’esigenza di considerare il paziente nella sua interezza, di esaminare la sua storia e le sue esperienze. Parlare dell’anziano demente significa parlare della sua vita.