Ci troviamo in un pub. Di fronte a noi una tavolata percorre in orizzontale la parete più lunga del locale. E’ simbolicamente divisa a metà: da un lato i genitori, dall’altro una schiera di bambini. Li osserviamo distrattamente mentre ricevono le ordinazioni. Noi intanto diamo un’occhiata al menù e inviamo una sonda nel nostro intestino per sentire cosa ci consiglia. Propone della verdura. Scegliamo dei club sandwich. Nel frattempo nella tavolata davanti, i bambini hanno sbrigato velocemente la questione cibo e iniziano ad armeggiare con i loro tablet. Sono circa le 20.45. Le lancette dei minuti continuano a fare ciò che meglio gli riesce. Dopo mezz’ora una madre si alza, avanza decisa verso il figlio ed afferra l’ipad. Il nostro pensiero è finalmente! Poi però il bambino si lamenta. Lei glielo restituisce e torna a sedersi. Passano all’incirca due ore e la situazione non cambia. Sono divisi in gruppetti da due-tre ciascuno, completamente assorti nei loro giochi touchscreen.
Al nostro tavolo si apre il dibattito. L’errore della madre, il ruolo dei genitori, i risvolti nelle future interazioni sociali di questi bambini. Arrivano inevitabili i pensieri che alla nostra età era diverso. Si correva tra i tavoli, si disegnava, si usciva a giocare o molto spesso ci si annoiava. Alla nostra età, in realtà, c’era il Game Boy e il Nintendo dice qualcuno. Poco dopo, uno dei nostri smartphone riceve un video divertente che incuriosisce tutti. Lo smartphone passa di sedia in sedia. Ognuno poi si ricorda del proprio. Ci sono altri video e immagini divertenti da mostrare. Ehi ma siamo proprio come quei bambini. Si è vero, risponde qualcuno, ma la differenza è che noi adulti abbiamo il concetto interiore di limite e percepiamo quando è il momento di smettere. Paghiamo il conto e usciamo ma la questione continua a risuonarmi in testa.
Come rapportarci con la tecnologia? E’ dannosa? Porta a problemi nella socializzazione? E, cosa ancor più complessa, come regolare il suo utilizzo in età infantile e in adolescenza? E’ qualcosa di inevitabile e, se usata in modo corretto, può migliorare lo sviluppo e le capacità di apprendimento? Più provo a formulare dei pensieri personali più mi accorgo di quanto mi stia addentrando in un argomento ricco di mille sfaccettature, dove il rischio di banalizzare e generalizzare è sempre dietro l’angolo. Cerchiamo di capire allora in che modo la letteratura scientifica può venire in nostro aiuto e scopriamo che, nonostante si tratti di un argomento relativamente nuovo, c’è un acceso dibattito che vede, come spesso accade, posizioni e prove contrastanti sull’impatto della tecnologia nella vita di un bambino e di noi adulti.
Un primo punto dal quale poter partire è il contesto in cui ci troviamo a vivere. Una realtà nella quale la tecnologia è penetrata in ogni aspetto della nostra vita, a volte in modo quasi incontrollato e non realmente consapevole. Nel 2001 Marc Prensky introduceva i termini di nativi digitali e immigrati digitali, concetti che in realtà fanno riferimento ad etichette non così cristallizzate come si può pensare. Per intenderci, mentre il primo termine si riferisce a coloro i quali sono cresciuti circondati dalle tecnologie digitali, il secondo indica una generazione che ne ha visto la graduale introduzione nel corso della propria vita, in maniera più o meno massiccia. Prensky denuncia una spaccatura generazionale che si traduce in differenze sostanziali nel modo di pensare ed elaborare le informazioni. “I nativi digitali” afferma “sono abituati a ricevere informazioni in modo veramente veloce. Amano gestire i processi in maniera parallela e multi-task. Preferiscono la grafica al testo, piuttosto che il contrario, e l’accesso random“. Dei madrelingua del linguaggio digitale, insomma, contrapposti a degli adulti che cercano, zoppicando il più delle volte, di addentrarsi nella nuova era informatica. Educatori e insegnanti che devono imparare ed aggiornare il proprio stile comunicativo come avviene per un sistema operativo, proponendo nuove metodologie in grado di catturare l’attenzione dei ragazzi. Dunque, nonostante la visione abbastanza condivisa da parte degli addetti all’educazione di una generazione di bambini e ragazzi con crescenti problemi di attenzione e difficilmente coinvolgibili nelle attività didattiche, il pensiero di Prensky è che siano le modalità e le metodologie che proponiamo loro ad essere obsolete. Metodologie che “non tengono conto delle loro nuove menti ipertestuali, della capacità di produrre processi di pensiero non più lineari ma orizzontali, con una maggiore velocità di risposta agli stimoli e la ricerca d’interattività e di una risposta immediata alle loro azioni”.
Ma quanto sappiamo realmente dell’impatto tecnologico nella nostra vita? Ben poco, in realtà. Non tutti sono d’accordo, ad esempio, sull’attribuzione ai nativi digitali del cosiddetto multi-task, ovvero la capacità di svolgere contemporaneamente più attività. Sembra più una visione idealizzata che una realtà vera e propria, come sostiene Kristina Hatch della University of Rhode Island. Al giorno d’oggi la tecnologia si traduce in un flusso costante di informazioni attraverso notifiche, email, nuove applicazioni e costante accesso ad internet. Questa sovrastimolazione influenzerebbe il modo in cui i bambini (e gli adulti, aggiungiamo noi) assorbono nuove informazioni portando a quella che Linda Stone (ex Microsoft executive) definisce APC, attenzione parziale continua, uno stato in cui spostiamo e dividiamo costantemente la nostra attenzione in attività differenti senza mai riuscire a focalizzarci su un unico elemento. Dunque stiamo diventando (e diventeremo) più bravi a dividere e dimezzare di volta in volta la nostra quota di attenzione, perdendo però la capacità di focalizzazione e selezione degli stimoli in entrata. Come sostiene Eral Miller, neuroscienziato del Massachusetts Institute of Technology, ciò che definiamo come multitasking è in realtà un passare da un compito a un altro in modo molto rapido e frammentato. Il tutto ad un elevato dispendio cognitivo le cui conseguenze sono per lo più sconosciute.
Per farci un’idea di quanti stimoli il cervello debba filtrare ed elaborare ogni giorno basta pensare che, secondo uno studio del 2010 condotto dalla Kaiser Family Foundation, bambini e adolescenti nella fascia d’età tra gli otto e i diciotto anni passano circa sei ore al giorno utilizzando dispositivi media (lettori musicali, tv, computer).
Come sottolineato dalla Società Italiana di Pediatria (Sip) a tutto ciò si aggiunge il rischio di adottare comportamenti pericolosi sui diversi social come ad esempio la pubblicazione di foto provocanti, l’accettare proposte di sesso online, o il condividere con sconosciuti informazioni personali quali il numero telefonico o la scuola frequentata.
Ma i rischi connessi ad un utilizzo eccessivo degli strumenti tecnologici sembrano estendersi anche ad altri aspetti della salute, come ad esempio l’obesità.
Uno studio canadese del 2003 pubblicato sull’International Journal of Obesity individuava un legame, in bambini tra i 7 e gli 11 anni, tra l’utilizzo di pc e tv e un rischio significativamente maggiore di essere in sovrappeso o obesi.
Oltre a ciò, la British Columbia’s Society of Occupational Therapists nel 2009 affermava che “i bambini ora si affidano alla tecnologia per la maggior parte dei il loro giochi, limitando gravemente le sfide necessarie ai loro corpi al fine di raggiungere un ottimale sviluppo sensoriale e motorio”.
Infine siamo così sicuri che il fatto di nascere in un mondo digitalizzato si accompagni ad un’effettiva conoscenza dei dispositivi che utilizziamo? Sembra proprio di no secondo il blogger e insegnante Marc Scott, autore di un articolo molto originale dal titolo “I ragazzini non sanno usare i computer…e questo è il motivo per cui dovresti preoccuparti”. Scott sottolinea come in realtà dietro l’etichetta di nativi digitali non vi siano affatto esperti di tecnologia e come non si debba confondere l’utilizzo di Facebook o You Tube con competenze tecnologiche come sapere, ad esempio, cos’è un sistema operativo e come si reinstalla, cosa vuol dire https ed altri aspetti tecnici. La panoramica che ci restituisce, basata sulla sua esperienza personale, è tutt’altro che ottimista. “La verità” afferma “è che i ragazzi non sanno usare i computer e neanche la maggior parte degli adulti”.
In linea con questo pensiero, un’indagine condotta dall’Università di Milano-Bicocca nel 2013 rivela che le attività maggiormente svolte dagli studenti lombardi sono proprio quelle di comunicazione attraverso le diverse piattaforme Facebook, Twitter, Msn, Skype (chattare 83%; commentare post 77%; aggiornare profilo e scambiarsi contenuti 65%). Solo a seguire troviamo pratiche di ricerca di informazioni (35%-53%), e attività ludiche on/offline (26%-34%).
Da quanto detto finora la tecnologia sembra portare nelle nostre vite, indipendentemente dall’età, solo aspetti negativi: eccesso di stimoli, incapacità di focus, utilizzo e conoscenza superficiale dei dispositivi, rischi per la salute e lo sviluppo di alcune funzioni cognitive e motorie. Ma non è proprio così. Ci sono altri 180 gradi da andare a vedere e che trovano le loro radici nel ruolo della scuola o, più in generale, dell’educazione. La posizione della National Association for the Education of Young Children (Naeyc) e del Fred Rogers Center è che i media tecnologici ed interattivi siano strumenti che possono promuovere l’apprendimento e lo sviluppo se utilizzati e selezionati, da parte degli educatori, con cura e consapevolezza, in base all’età e al livello di sviluppo del singolo bambino. La tecnologia, se vista come un mezzo e non come un fine, può affiancarsi ai metodi di insegnamento tradizionali, ricordando che è l’interazione tra adulto-bambino e tra bambini e loro pari a rappresentare il motore del loro sviluppo cognitivo, linguistico, fisico e motorio. Una tecnologia al servizio della relazione, dunque, e non una sostituzione ad essa. Naturalmente, sostiene la Naeyc, questo richiede un grande impegno e sforzo da parte degli insegnanti e, aggiungiamo noi, da parte dell’intero sistema educativo. Sforzo atto alla valutazione e conoscenza delle possibili tecnologie da riproporre nell’interazione con i bambini poichè strumenti tecnologici efficaci collegano le attività “sullo schermo” con quelle “fuori campo” enfatizzando lo spirito di condivisione e cooperazione (Takeuchi, 2011).
A sostegno di questa tesi, Rosie Flewitt dell’Institute of Education dell’Università di Londraha condotto uno studio per valutare le opportunità innovative nell’apprendimento offerte dall’utilizzo dell’iPad in diverse scuole: asilo nido, scuola primaria e scuole speciali (per bambini con disabilità o difficoltà di apprendimento). I risultati sono stati molto positivi. Bambini con difficoltà nel controllo motorio fine riuscivano ad interagire con una specifica applicazione che consisteva nel colorare delle scene raffiguranti degli animali, scegliendo il tipo di colore, apportando modifiche e proponendo nuove idee, il tutto accompagnati e sostenuti dall’insegnante il quale verbalizzava le loro azioni, creando dunque un ponte tra l’atto motorio e la rappresentazione mentale dello stesso. L’utilizzo dell’ipad, inoltre, aumentava aspetti legati all’indipendenza potendo collegare lo stesso dispositivo ad una lavagna interattiva multimediale, aggirando le limitazioni cui bambini con disabilità devono far fronte ogni giorno. Risultati positivi sono stati raggiunti anche per quanto riguarda altri aspetti. I bambini, soprattutto delle scuole speciali e primarie, dimostravano elevati livelli di concentrazione, coinvolgimento e spirito collaborativo. Inoltre alcune applicazioni permettevano loro di sperimentare la propria creatività ed un senso di controllo verso l’attività nella quale erano impegnati.
Cosa fare dunque? Ritorniamo a scrivere con pennino e calamaio? Lasciamo che le nostre vite vengano travolte dall’immissione sempre più incontrollata di dispositivi tecnologici dai quali diventiamo ben presto dipendenti? La risposta è no. Sebbene lo stile vintage sia tornato di moda, eliminare la tecnologia dalla nostra vita e da quella di bambini e adolescenti non è la soluzione, oltre ad essere impossibile. Così come alzare le mani davanti al progresso tecnologico potrebbe avere gli stessi effetti di provare ad affrontare uno tsunami in costume da mare sulla sabbia.
Ripartiamo allora da dove avevamo iniziato, ovvero il contesto in cui viviamo. Prendiamo atto del fatto che la tecnologia, e con questo non intendo solo tablet, pc e quant’altro ma tutto ciò che è tecnologico, attraversa le nostre vite, i nostri affetti e sentimenti, il nostro modo di pensare e di fare e che questo ha i suoi effetti positivi e negativi. E soprattutto che nella determinazione di tali effetti non è la tecnologia il vero problema ma l’utilizzo che ne se fa. Dal nostro approccio ad essa deriverà la nostra capacità di modellarla o esserne modellati. Cerchiamo dunque di non demonizzarla né idealizzarla e consideriamola per quello che è, uno strumento a nostra disposizione. Uno strumento che, se selezionato ed utilizzato con cura e consapevolezza, può portare ad ampliare la rete di rapporti sociali delle persone anziché restringerla, vederle intervenire in forum e discussioni, entrare in contatto con culture, ideologie politiche e religiose diverse (Hampton et al., 2009), stimolare l’interesse di bambini e ragazzi e renderli preparati per il mondo in cui si troveranno a vivere.
E’ l’utilizzo che scegliamo di fare ed insegnare a fare la differenza. Utilizzo che cambia in base al contesto, ai soggetti, agli scopi. Un uso o un approccio improprio, ad esempio, può portare ad un isolamento tra genitore e figlio, laddove una modalità diversa potrebbe rappresentare lo spunto per un’esperienza di condivisione. E ancora, il timore di un eccessiva sedentarietà e abbandono di attività fisiche può essere compensata attraverso l’impiego di tecnologie che incoraggino l’esplorazione esterna, la ricerca di informazioni sul campo, come ad esempio una ricerca di scienze condotta integrando le vaste conoscenze recuperabili su internet e la perlustrazione di una porzione di bosco, in un processo di integrazione con le metodologie tradizionali.
La scena iniziale del pub ci mostra tre aspetti importanti sui quali riflettere. Noi ci siamo concentrati maggiormente sull’impatto tecnologico nella vita di bambini, tuttavia possiamo vedere anche dell’altro: un genitore che nel vedere il figlio ipnotizzato per ore davanti al tablet capisce di dover porre delle regole senza riuscirci da un lato e degli adulti fiduciosi della propria consapevolezza nel rapportarsi alla tecnologia. In entrambi i casi si sta parlando della capacità di saper porre dei limiti e restano dei dubbi, in chi scrive, nella nostra effettiva capacità di riuscirci.
La sensazione è che la corsa affannosa verso l’innovazione, verso la nuova scoperta, c’abbia fatto in parte dimenticare proprio il concetto di limite umano. Abbiamo iniziato ad alzarne sempre più l’asticella, puntando a diventare sempre più veloci, sempre più connessi, a rendere possibile ciò che si riteneva impossibile, arrivando a sentirci quasi meno umani. Non più una tecnologia al servizio dell’uomo, quindi, ma un uomo che per la tecnologia perde di vista se stesso e, di conseguenza, non sa più dove porre dei confini e, cosa essenziale, come mostrarli agli adulti che verranno.
A tal proposito sottolineiamo che Marc Prensky, dieci anni dopo aver coniato i termini nativi ed immigrati digitali, introdusse una terza categoria che superava ed includeva le precedenti, quella della saggezza digitale. Il saggio digitale, afferma, “accetta il potenziamento come fattore integrante dell’esperienza umana, ed è digitalmente saggio, sia nel modo in cui accede al potenziamento digitale per integrare le proprie capacità innate, sia nel modo in cui usa quel potenziamento per attuare un processo decisionale più saggio”.
Cerchiamo allora di ridimensionare l’impatto che essa può avere su di noi. Trasformiamola in un’onda più governabile e come dei surfer accompagniamo il suo cammino, riprendendone il comando.
Non limitiamoci a filtrare il traffico rete dei pc dei ragazzi per proteggerli da contenuti inappropriati, ma insegniamo loro a navigare in modo sicuro, a custodire i propri file personali, come propone Marc Scott. Nel lasciargli utilizzare tablet e pc moderiamo e poniamo dei limiti temporali ma, prima ancora, presentiamo loro i rischi e benefici dei dispositivi. Il cambiamento può (e deve) iniziare dall’educazione. Ma, attenzione, non è detto che i destinatari debbano essere unicamente i bambini. Come afferma Flewitt, pensando ad un genitore che necessita di acquisire competenze sull’utilizzo di un tablet, “è possibile acquisirle da loro, loro ti possono insegnare”, perchè se è vero che per certi aspetti i ragazzi di oggi non hanno una conoscenza approfondita di ciò che regola i propri dispositivi elettronici, appare evidente il feeling quasi innato che dimostrano, fin dalla tenera età, verso ciò che è digitale.
Dunque facciamo chiarezza prima di tutto dentro noi stessi, ricalibriamo i nostri punti di riferimento interni e ritroviamo il concetto di limite. Solo così potremo avere qualcosa da insegnare e, perchè no, da imparare.
Foto: Tiago Marques/ CC license
Riferimenti bibliografici:
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(OK)Gui M., a cura di (2013), Indagine sull’uso dei nuovi media tra gli studenti delle scuole superiori lombarde, Regione Lombardia, ISBN: 9878890064265.
(OK) Hampton, Keith N., et al. (2009). Social isolation and new technology. Pew Internet & American Life Project 4
(OK) Hatch, Kristina E., “Determining the Effects of Technology on Children” (2011). Senior Honors Projects. Paper 260. http://digitalcommons.uri.edu/srhonorsprog/260
M. Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants Part I, in “On the Horizon” (MCB University Press), vol. 9, n. 5, ottobre 2001. Traduzione di Francesca Nicola.
M. Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants, Part II. Do They Really Think Differently?, in “On the Horizon“, MBC University Press, vol. 9, n. 6, dicembre 2001.
M. Prensky, H. Sapiens Digitale: dagli Immigrati digitali e nativi digitali alla saggezza digitale, 2010
Technology and Interactive Media as Tools in Early Childhood Programs Serving Children from Birth through Age 8, A joint position statement issued by the National Association for the Education of Young Children and the Fred Rogers Center for Early Learning and Children’s Media at Saint Vincent College January 2012
M. Scott, “Kids can’t use computers… and this is why it should worry you” (2013). http://coding2learn.org/blog/2013/07/29/kids-cant-use-computers/
Takeuchi, L.M. 2011. Families Matter: Designing Media for a Digital Age. New York: The Joan Ganz Cooney Center at Sesame Workshop.
http://joanganzcooneycenter.org/Reports-29.html
The Henry J. Kaiser Family Foundation, Generation M2: Media in the Lives of 8- to 18-Year-Olds: A Kaiser Family Foundation Study, The Henry J. Kaiser Family Foundation, Menlo Park, Calif, USA, 2010, http://www.kff.org/entmedia/upload/8010.pdf
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